07/03/2022 – 18:39
Scritto da
Stefano Gallone
Tra soluzioni classiche e sperimentazioni sia concrete che elettroniche, Gianfranco De Franco porta avanti un discorso sonoro ricco di idee e prospettive
È una concezione sonora molto particolare, personale e, dunque, sinceramente interessante quella posta in essere dal polistrumentista calabrese Gianfranco De Franco. Una visione d’insieme che parte dalle spiccate capacità di padroneggiamento di strumenti potenzialmente prediletti – tra cui, in primis, si direbbe fiati tra sax e clarinetto – per poi estendere il proprio cospicuo raggio d’azione verso territori stilistici sentitamente variegati, per quanto rivolti comunque a impostazioni elettroniche minimali che tracciano il percorso per approcci sperimentali di varia fattura.
Traendo spunto, probabilmente, da soluzioni sia passate che contemporanee proprio in termini di esperimento sonico incentrato su varie tipologie di sposalizio tra strumenti concreti e sintetici, specialmente tra le viscere del suo nuovo notevole lavoro in studio, Stellar sunset, De Franco procede con passo spedito ma sempre salvificamente curioso attraverso territori che vagano tra la world music e vaghi sentori free jazz, tra suggestioni orchestrali contemporanee e ricerche sul campo da ‘object trouvé’, tra stratificazioni marcatamente ambient e soluzioni di arrangiamento ai limiti di passionalità morriconiane.
Niente, in Stellar sunset, è particolarmente definito se non la ferrea volontà di De Franco stesso nel volersi porre come nucleo portante di una sperimentazione continua che mantiene costante il suo livello di riconoscibilità ma, allo stesso tempo, procede a grandi falcate verso una posizione intermedia tra epicità e passionalità sinuosa, caparbietà dionisiaca ed eterea stasi sensoriale. Ed è una condizione decisamente condivisibile, questa, perché necessaria a lasciarsi trasportare da un’idea di composizione che, per l’appunto, trascende il dato terreno per rivolgersi all’universalità di considerazioni che dall’umano trasmigrano gradualmente verso l’immateriale e l’eterogeneo, verso il diversamente tangibile proveniente dallo spogliarsi definitivo delle proprie fattezze terrene per rendere il tutto materia fondativa di possibili nuovi orizzonti.
Dalle iniziali incursioni classicheggianti adagiate su sintesi ritmiche si procede, allora, verso esperimenti non molto dissimili da quelli a nome Eno / Byrne con, in più, un sentore di ricerca anche nordeuropea, senza disdegnare qualche cima di minimalismo circolare alla Philip Glass ma in acidità quasi IDM con dilatazioni dark. L’elettronica ambient si fa più incisiva nei passaggi potenzialmente migliori – tra cui La chiesetta sulla collina stellata – ma è materia anche per tendenze analogiche fra Tangerine Dream e Nils Frahm, così come per collage da pura ricerca antropologica personale fatta di suoni ambientali e canti popolari. C’è spazio anche per dissonanze contemporanee – scomodiamo pure un po’ Varèse e Stravinskij, perché no – subito smentite da clarinetti carezzevoli e sotterfugi eterei che giocano volentieri con parvenze synthwave per confluire, infine, in cenni prog e aperture spaziali di elevato valore emozionale incentivato da andamenti tribali in ottica world alla Peter Gabriel.
Ottima prova discografica e universo di idee sonore molto interessante che merita, senza alcun dubbio, seguito attento e predisposto.